Amici della Prosa

Le recensioni degli spettacoli della giuria giovani, composta dagli studenti degli Istituti Superiori della città.

 

Recensione "La locomotiva"

La forza di questo spettacolo risiede per la maggior parte nell'incredibile capacità evocativa dell'attore solista che efficacemente ci porta fin dalle prime battute ad assistere ad un racconto corale vivo e diretto, una sorta di carosello di umanità.  E la storia diventa presente. 

“La Locomotiva” è il titolo di questo viaggio teatrale.

La scenografia, semplice ma suggestiva, è composta da pochi elementi per lasciare libero spazio alla nostra immaginazione, incoraggiata più volte da Gigi Mardegan. Lui trasforma la scena in un paesaggio fin dall'inizio: quando disegna la gigante locomotiva a falcate, finendo fuori dalla scena e suscitando il riso.

È grazie alle descrizioni dell'attore che abbiamo visto in una pedana la nebbiosa campagna veneta del 1921 e in due ruote un enorme treno. Pochi oggetti ad aspettare che le parole creino tutto il resto.

All'inizio è il macchinista a parlarci e accoglierci nella scena. Sappiamo da lui che quella lunga locomotiva ospita una moltitudine di persone in lutto, e che ha il triste scopo di dirigere l'importante processione per il Milite Ignoto fino a Roma.

Improvvisamente, però, la locomotiva si ferma. È a questo punto che cominciano a susseguirsi i personaggi: un cieco, una donna, un prete e un anarchico.

La regia ha fatto un ottimo lavoro a dare ad ognuno una sua voce e un tono unico, differente da tutti gli altri personaggi per tenere alta l'attenzione e le aspettative del pubblico. Gigi Mardegan da parte sua non è stato da meno, ha saputo interpretarli tutti con bravura e dimestichezza.

Questi personaggi si susseguono per il resto dello spettacolo, con le loro storie da raccontarci e le loro esperienze, assai diverse, della guerra. Per quanto possano sembrare lontane le loro vite, in ogni narrazione riverbera una eco comune: l'effetto devastante della guerra. È ciò che li porta tutti sulla stessa locomotiva a viaggiare verso la stessa direzione. Ognuno di loro desidera solo lasciarsi alle spalle tutto il dolore, l'orrore vissuto: l'invisibile macchinista e la pesante attesa danno loro l'opportunità di sfogarsi. Così si liberano delle memorie di sofferenza che li assillano. E non solo simbolicamente. Ogni persona lascia sulla scena un oggetto che rappresenti il suo lutto. È un modo per connettere i personaggi, che neanche si incrociano, e un modo per non farci scordare nessuna delle storie. 

E così, dalle singole narrazioni, emerge la Storia, il nostro vissuto comune, la nostra eredità.

Impossibile non venirne coinvolti.

Chiara Ciarlatani

 

Un uomo ormai più che maturo torna ad essere un bambino di 5 anni di fronte a quello che gli sembra essere un prodigio a dodici ruote. Un mastodontico corpo di metallo pesante tonnellate che corre da Aquileia a Roma tra il 29 ottobre e il 2 novembre 1921 su cui viaggia il Milite Ignoto. Il treno che ha accompagnato la più lunga processione funebre della storia italiana viene presentato come un’entità a sé stante, quasi con un nome proprio (FS 740, numero di serie 115).

Esso impersona il progresso, nonché funge da filo conduttore della storia. Improvvisamente, per far fronte ad un guasto del motore, il macchinista sparisce nella pancia della bestia (rappresentata efficacemente da una scenografia essenziale ma curata) dalla quale non uscirà fino alla fine della rappresentazione. Durante questo lasso temporale si susseguono una serie di personaggi che rendono il macchinista partecipe delle loro sofferenze presenti e passate, delle loro storie e spesso subiscono un'evoluzione durante il proprio racconto, prendendo risoluzioni e riflettendo sulla loro identità, sulle loro scelte e sulla natura dell’uomo.

Un’abilissima e sentita interpretazione in veneto da parte di Gigi Mardegan dà voce e corpo a cinque personaggi diversissimi, che sono in grado di rendere un’immagine ben definita di una comunità appena uscita dalla Grande Guerra, che tuttavia non pare affatto finita. Tutti i protagonisti sono ancora succubi dei traumi subiti e costretti a continuare a vivere miserevolmente in una società governata da potenti interessati unicamente al loro profitto.

Una madre che non avrà mai indietro il figlioletto di otto anni, vittima indiretta (o forse non così tanto) della guerra, ma ancora in grado di tenere alta la testa in quanto donna.

Un cieco a cui sono state sottratte la vista e la ragione, il quale può finalmente esprimere apertamente i suoi pensieri auto-definendosi un “matto”.

Un anarchico che non crede più in nulla decide comunque di non cedere all’ira.

Infine un prete, in grado di suscitare la commozione del pubblico, testimone della più grande ipocrisia della guerra. Egli è chiamato a portare conforto proprio quando la voce della pietà rimane inascoltata di fronte ad un’ingiustizia. E’ ferito e sconfortato dall’immensa insensatezza di tutto quando si rende conto di essere stato lo spettatore impotente di una macabra rappresentazione in cui è l’umanità a venir meno all’uomo.

Personaggi seppur diversissimi condividono però un desiderio, quello di andare avanti e la necessità di proseguire le loro vite. Un’analisi storica accurata che ci mostra la verità oltre i libri nozionistici e ci racconta empaticamente che l’assurdità della devastazione non può essere addolcita dalle belle parole.

Margherita Leoni 3A Classico

 

La rappresentazione teatrale era ambientata nel 1921 su un treno in viaggio da Aquitania a Roma per omaggiare il milite ignoto. Vediamo la partecipazione di 5 personaggi: il capotreno, la vedova, il soldato, il prete e il cieco. 

Ad un certo punto la locomotiva si ferma nella pianura veneta e i diversi personaggi, uno alla volta iniziano a interloquire con il macchinista che nel frattempo cerca di riparare la locomotiva. La prima a parlare è la vedova, che si lamenta perché le persone dicono che le donne contano poco, ma durante la guerra sono state loro a mandare avanti la famiglia e ci parla anche della triste morte di sua figlia, causata da una bomba. Lascia al macchinista un Pinocchio, giocattolo della bimba defunta. Dopo la vedova arriva un anarchico armato di pistola e ha intenzione di far saltare il treno con una bomba, perché vorrebbe morire. Racconta di un treno che arrivando a Roma invece di fermarsi al capolinea, con ufficiali dell'esercito e alte cariche dello stato a fianco alle rotaie, continua senza rallentare come dimostrazione di forza. Lascia un orologio, il timer della bomba. Successivamente appare in scena anche un cieco, che ha perso la vista in guerra ed è un ex soldato, che ci racconta quello che secondo lui  dovrebbe cambiare e fare il paese per tornare alla gloria prima della guerra. Lascia il cappello. 

Il cappellano ci racconta che ha assistito alle ultime ore di vita di un soldato accusato di diserzione, che deve essere fucilato all'alba del giorno dopo. Pensa alla famiglia del soldato e al dolore che proveranno i suoi cari e anche a come sia  ingiusto che una persona decida la sorte si un'altra. Si lamenta del fatto che dovremmo chiedere scusa ai caduti, invece che a chi è ancora vivo, e del fatto che la guerra ti insegna a "PORTARE I PANTALONI DA UOMO", perché in guerra ci si rimette tutto e bisogna essere pronti a tutto se si vuole sopravvivere.

Sara Cecchini e Viola Benedetti 3BC

Pubblicato in Oh My Gad
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